Opera, Milano, Gennaio 2014

 

 

Ogni volta che si preannuncia una creazione per Roberto Bolle è un evento, una festa della danza. Sono combattuta tra la curiosità di saperne di più e il piacere di pregustare la sorpresa, quando ci si avventura in sala facendosi stupire ed emozionare senza approcci razionali. Compero il biglietto a scatola chiusa e poi via via i dettagli si svelano. Il titolo della creazione è “Opera”: essendo il bicentenario della nascita di Verdi e Wagner immagino qualcosa di romantico. Poi nelle anticipazioni vengo a scoprire che la partitura si rifà a versi di Metastasio. A quel punto si risveglia in me l’appassionata del melodramma barocco, che ho avvicinato per la prima volta nel 1994, dopo che la musica lirica mi aveva accompagnato fin da piccola. La prima reazione è stata di delusione per il mancato ricorso a partiture dell’epoca, quando i compositori erano geni della melodia. Poi mi sono convinta che la scelta di Desyatnikov rappresenta, con il duo Harrington-Atwood, il suggello della sintesi artistica costituita dal Ratmansky di oggi, russo residente negli USA. Finalmente sul sito della Scala compare il libretto. A prima vista vien da pensare a un’operazione che già nel Settecento veniva definita “pasticcio”. Le arie, composte da varie strofe con un’unica melodia adatta per tutte e che l’interprete riprende tornando indietro con libere variazioni, venivano con disinvolta fantasia trasportate da un lavoro all’altro, distribuendole in un astrattismo formale sino al lieto fine di prammatica.
Oltre all’anteprima, già 5 recite hanno preceduto quella a cui mi accingo ad assistere. Viaggiamo dall’Emilia alla Lombardia sotto una pioggia battente e già nei pressi del casello autostradale ci coglie la prima stupefacente sorpresa: l’orizzonte è di un limpido azzurro e il sole illumina la cerchia delle montagne innevate. Appuntamento con i bollerini milanesi davanti alla Scala: un breve saluto e poi di corsa ciascuno al proprio posto, chi in platea, chi in palco e chi in galleria. Pochissimi i vuoti in sala, palpabile senso di aspettativa per il crescendo che vivremo.

La serata inizia con due lavori, “Russian Seasons” e Concerto DSCH”, che sono molto simili: due bozzetti dove si rivela il gusto di Ratmansky per il virtuosismo, per la scomposizione del corpo di ballo, per le citazioni dai grandi classici del repertorio. E’ uno stile unico e inconfondibile, le citazioni non sono mai parodia come ad esempio in “Le Grand Pas de deux” di Spuck ma fondamento culturale per il balletto del nostro tempo. Si potrebbe giocare a lungo a chi ne individua di più. Come da copione in evidenza sono i danzatori di gamba corta, avvantaggiati nell’esecuzione dei passi sovrabbondanti. Sarà che i due balletti sono in repertorio di diverse compagnie, fatto sta che mi risulta difficile individuare un contributo aggiuntivo da parte di quella della Scala.

Intanto l’attesa si è fatta spasmodica, mi sembra di non reggere più oltre quando finalmente inizia “Opera”. Di primo acchito vien da pensare che da due portate del tipo “tagliata con aceto balsamico e scaglie di parmigiano” e “tartare di tonno rosso con caponata all’arancia” (due piatti gustosi ma abituali nel panorama gastronomico d’oggi) si sia approdati al pranzo di Vatel. Pur rimanendo intatta l’impronta caratteristica di Ratmansky, c’è un salto di qualità enorme nella coreografia, che trova lo sfogo ideale nell’impianto del lavoro. La partitura è nel solco settecentesco, con una sinfonia squillante di trombe. Sul fondale piomba un angelo che impugna quello strumento e in scena si simulano duelli, quasi a ricordare che era prassi rappresentarne di leggendari, tra i cantanti tra loro e tra i cantanti e gli strumentisti, come flautisti e trombettisti.
Quando il fondale è la scena notturna sulle rive del Nilo mi ricordo di botto la grandiosa produzione di “Giulio Cesare” di Handel andato in scena all’Opera di Roma nel maggio del 1998. Ormai mi è chiaro che sto assistendo ad un’allegoria del melodramma barocco, sintetizzato nel verso metastasiano “Sogni e favole io fingo”. La coerenza è un non problema, le capacità virtuosistiche si slegano dal sesso, a cui verranno vincolate nel romanticismo. Un esempio di come questo si rifletta nella coreografia si coglie nel passaggio in cui dal corpo di ballo si staccano alcuni elementi, con le loro armature e i loro cimieri, che eseguono gli assemblé volé dell’entrata di Giselle tra le villi.
I numeri si susseguono e tra l’uno e l’altro il pubblico applaude a scena aperta. Ci sarebbe materiale per un balletto lungo tre volte tanto. Con la sua marsina rossa ricamata d’oro Roberto domina con la sua autorevolezza, alternando giri vorticosi ad aerei manège, fino a quando lascia tutti a bocca aperta con una serie di giri alla seconda con cambio di fronte. Già l’elemento è di per sé sbalorditivo e a mia memoria lo avevo visto solo da Roberto e solo nel “Mito della fenice”. Ma a ben guardare stavolta c’è di più, perché il cambio di fronte è in senso opposto! Non appena ci si rende conto della bravura pirotecnica esplode l’applauso, mentre Roberto continua a dispensare l’artificio con irridente perfezione. Sono stupefatta: tra gli innumerevoli commenti che ho letto prima di partire per Milano nessuno faceva cenno a tutto questo. Perché tutti hanno taciuto?
Segue il passo a due con Beatrice Carbone, che ci restituisce l’interprete appassionato a cui siamo abituati. Il finale è azzeccato e le chiamate continuano per 7 minuti. Penso al successo che “Opera” potrebbe ottenere all’estero, come biglietto da visita per la nostra tradizione, specie nei paesi anglosassoni che hanno avviato la riscoperta del barocco.
Mentre Roberto vola a Londra noi riprendiamo la via del ritorno, colpite dalla meraviglia fulminante per quel lato del Dio della danza che ultimamente si celava sotto i ruoli romantici e che nel tempo ci ha regalato la brillantezza delle variazioni di Nureyev e la grandezza dell’Oberon di Balanchine. Grazie a Ratmansky per avercelo mostrato ancora una volta. Grazie a Roberto per la generosità con cui si mette sempre in gioco e sfida se stesso ogni giorno. Incomparabile e inarrivabile.

Susy

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